lunedì 2 dicembre 2013

Europa: meta o terra di passaggio per gli artisti cinesi?

“Il sapere cinese come base, quello occidentale come strumento”. Scriveva così il politico e letterato Zhang Zhidong nella Cina di fine ‘800, quando a seguito delle sconfitte subite durante le guerre dell’oppio e nella guerra sino-giapponese si fece strada la necessità di profondi interventi di modernizzazione in tutti i campi, affinché il “Paese di mezzo” potesse tornare a competere con le grandi potenze mondiali. E l’arte non rimase indenne dalle contaminazioni della cultura occidentale. Se fino ad allora il Giappone aveva costituito il punto di riferimento straniero per l’innovazione, dai primi anni del ‘900, e soprattutto dopo il movimento del 4 maggio del 1919, fino agli anni ’40, gruppi di artisti cinesi cominciarono a migrare verso l’Europa, in particolar modo Parigi, anche grazie a borse di studio del governo. Alcuni decisero di fermarsi nel vecchio continente, come Sanyu, Zao Wou-ki, altri invece di fare ritorno in patria. Sarebbero stati loro i padri dell’arte cinese moderna.
È il caso di numerose personalità dell’epoca, come Lin Fengmian, Xu Beihong, Wu Guanzhong, che fondarono accademie d’arte e introdussero in quelle già esistenti programmi basati sul sistema di educazione artistica occidentale caratterizzato dalla descrizione realistica di persone e luoghi, dalla pratica del disegno e della pittura ad olio, già introdotta dai gesuiti nel 1600. Sebbene fino ad allora il linguaggio artistico occidentale fosse stato  considerato volgare e troppo letterale perché non evocativo nella rappresentazione del vero, ora il mondo artistico figurativo cinese guarda con interesse alle nuove tecniche e ai nuovi soggetti della tradizione culturale europea.
Dopo un periodo di studi all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux Arts di Parigi, dove apprese la pittura ad olio e il disegno, Xu Beihong viaggiò molto per l’Europa occidentale dove ritornò in seguito, facendo tappa anche in Italia, con una mostra di pittura moderna. Il direttore del Singapore Art Museum Kwok Kian Chow sostenne che il nome di Xu era in cima alla lista nell’arte asiatica del realismo moderno. Anche il contemporaneo Lin Fengmian studiò prima a Dijon e poi a Parigi, dove partecipò nel 1922 al prestigioso Salon d’Automne con la sua opera “Autunno”.

Con la costituzione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, il vento cambia e la Cina strizza l’occhio alla Russia, che diventa il suo interlocutore privilegiato. Si afferma il realismo socialista e l’arte diventa strumento di propaganda, piegata alla politica; durante la rivoluzione culturale, tutte le scuole vengono chiuse, e intellettuali e artisti mandati in campagna.
Bisogna aspettare il 1976, anno della morte di Zhou Enlai e Mao Zedong, perché si manifesti con forza il desiderio di una libertà di espressione per molti anni tenuta repressa. È a questo periodo che risale il gruppo “Star”, costituito da giovani artisti, tutti nati negli anni ’50 e che hanno vissuto appieno la rivoluzione culturale. Il nome deriva dall'affermazione del  fondatore, Ma Desheng:  “ogni artista è una stella che splende individualmente”. Il 1979, data in cui si costituirono come gruppo artistico, è considerato l’inizio dell’arte cinese contemporanea. Le parole d’ordine erano rifiuto del realismo socialista, messa in discussione dell’iconografia maoista e adozione di stili e tecniche di matrice occidentale. In una parola, DISSENSO.
Ma i tempi non erano ancora maturi per un libero sviluppo dell’arte e alla notizia dell’abolizione dell’articolo che garantiva la libertà d’espressione, gli artisti di “Star” decisero di lasciare la Cina. È questo un momento decisivo per il ritorno degli artisti cinesi in Europa: Wang Keping scelse Parigi, dove arrivò nel 1984, il suo laboratorio si trova in un sobborgo a sud della capitale francese; Ma Desheng, dopo una breve sosta in Svizzera, anche lui raggiunse Wang. Furono seguiti da diversi altri colleghi. Altri scelsero il Giappone o gli Stati Uniti, come Ai Weiwei, personaggio molto discusso dalla stampa internazionale.
A differenza degli artisti d’inizio secolo, che avevano studiato in Europa, questo secondo gruppo invece guardò al vecchio continente come ad una meta dove poter finalmente crescere, esprimersi liberamente e  affermarsi. Un’ ulteriore differenza da sottolineare è il diverso background culturale e di formazione tra i due gruppi: mentre i primi avevano alle spalle un solido percorso accademico arricchito poi dai corsi seguiti in Europa, gli altri erano per lo più autodidatti. Fu allora che ebbe inizio quel processo che portò la nuova arte cinese all'attenzione internazionale: non c’è fiera, museo, galleria nel mondo che non includa artisti cinesi contemporanei. Solo per quanto riguarda l’Italia, la Biennale di Venezia ha un padiglione fisso dedicato alla Cina, e quest’anno a Monza è stata inaugurata la prima edizione della Biennale d’Arte Contemporanea Italia Cina.

L’Europa è ancora un punto di riferimento per giovani aspiranti artisti cinesi che continuamente invadono le accademie d’arte delle principali città europee, per investire, anche sotto la spinta dei genitori, in una formazione che in patria sarebbe molto diversa. E poi è sempre un punto in più sul proprio curriculum per diventare più competitivi. Si pensi al progetto Turandot che permette a studenti stranieri, tra cui anche cinesi, di frequentare accademie d’arte e di musica in Italia.

Ma cosa vuol dire essere artisti in un posto dove i parametri sociali, culturali, politici sono tanto lontani dal proprio paese d’origine? Quanto conta il fattore nazionale nella produzione artistica una volta fuori dalla propria terra? Sicuramente domande legittime, infatti grandi sono i problemi di carattere culturale e linguistico. Un esempio è la limitata conoscenza del francese di Wang Keping, nonostante il suo lungo periodo di permanenza in Francia. 
Per il secondo interrogativo, basta pensare alla popolarità che l’arte cinese contemporanea  riscuote ai grandi appuntamenti internazionali del settore in tutto il mondo, case d’asta e gallerie occidentali incluse. Pensare che “sia affascinante” solo perché “cinese” e quindi ridurre il tutto ai confini territoriali di un popolo, sarebbe riduttivo. Certamente l’identità culturale ha un peso e può essere motore e/o strumento, punto di partenza per esprimere qualcosa che trascende una bandiera o una lingua, che risulta universale, che riguarda le sorti di tutti noi, gli interrogativi, i bisogni comuni. Per Ma Desheng, l’arte conta più della nazionalità. Durante un’intervista ha affermato : “prima sono un pittore, poi un cinese ed infine vivo a Parigi. Per me, non è cambiato nulla e la mia considerazione dell’arte, neanche. Il cielo è sempre lì. Certo, ci sono il vento, la neve, le nuvole, ma il cielo e il sole sono sempre lì. Tra qui e la Cina, cambia la lingua, il cibo è diverso. Ma le radici della vita sono sempre le stesse. Considera la guerra, per esempio, c’è sempre stata e le condizioni sono sempre le stesse. L’unica cosa che è cambiata è il passaggio dalla pietra alle piante, ma fondamentalmente si tratta sempre di un uomo che uccide un altro uomo”. Le pietre sono un soggetto costante delle tele di Ma Desheng, poiché “agli albori del mondo, c’erano solo pietre. Non importa come il mondo cambia, loro rimangono dure”.


Nonostante la crisi economica e culturale che l’Europa sta affrontando, c’è qualcuno che la ritiene una tappa importante, per diverse ragioni: chi per la formazione, chi perché il vecchio continente non conosce censura e offre la possibilità di esprimersi liberamente, di trovare la propria strada, di seguire il proprio fuoco. Un modello, un rifugio, una speranza, un’occasione. In tutti i casi, c’è un’opportunità di riflessione e confronto, anche per “noi”, forse da sfruttare meglio, per smussare alcuni diffusi preconcetti, stimolare la nostra sensibilità e curiosità, e creare più momenti di scambio.


Chissà che un giorno studenti d’arte europei non partano per l’accademia d’arte di Shanghai o di Hangzhou per frequentare dei corsi d’arte…Impossibile?

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