“Il sapere cinese come base,
quello occidentale come strumento”. Scriveva così il politico e letterato Zhang
Zhidong nella Cina di fine ‘800, quando a seguito delle sconfitte subite
durante le guerre dell’oppio e nella guerra sino-giapponese si fece strada la
necessità di profondi interventi di modernizzazione in tutti i campi, affinché
il “Paese di mezzo” potesse tornare a competere con le grandi potenze mondiali.
E l’arte non rimase indenne dalle contaminazioni della cultura occidentale. Se
fino ad allora il Giappone aveva costituito il punto di riferimento straniero
per l’innovazione, dai primi anni del ‘900, e soprattutto dopo il movimento del
4 maggio del 1919, fino agli anni ’40, gruppi di artisti cinesi cominciarono a
migrare verso l’Europa, in particolar modo Parigi, anche grazie a borse di
studio del governo. Alcuni decisero di fermarsi nel vecchio continente, come
Sanyu, Zao Wou-ki, altri invece di fare ritorno in patria. Sarebbero stati loro
i padri dell’arte cinese moderna.
È il caso di numerose
personalità dell’epoca, come Lin Fengmian, Xu Beihong, Wu Guanzhong, che
fondarono accademie d’arte e introdussero in quelle già esistenti programmi
basati sul sistema di educazione artistica occidentale caratterizzato dalla
descrizione realistica di persone e luoghi, dalla pratica del disegno e della
pittura ad olio, già introdotta dai gesuiti nel 1600. Sebbene fino ad allora il
linguaggio artistico occidentale fosse stato considerato volgare e troppo letterale perché
non evocativo nella rappresentazione del vero, ora il mondo artistico
figurativo cinese guarda con interesse alle nuove tecniche e ai nuovi soggetti
della tradizione culturale europea.
Dopo un periodo di studi
all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux Arts di Parigi, dove apprese la pittura
ad olio e il disegno, Xu Beihong viaggiò molto per l’Europa occidentale dove
ritornò in seguito, facendo tappa anche in Italia, con una mostra di pittura
moderna. Il direttore del Singapore Art
Museum Kwok Kian Chow sostenne che il nome di Xu era in cima alla lista
nell’arte asiatica del realismo moderno. Anche il contemporaneo Lin Fengmian
studiò prima a Dijon e poi a Parigi, dove partecipò nel 1922 al prestigioso
Salon d’Automne con la sua opera “Autunno”.
Con la costituzione della
Repubblica Popolare Cinese nel 1949, il vento cambia e la Cina strizza l’occhio
alla Russia, che diventa il suo interlocutore privilegiato. Si afferma il realismo
socialista e l’arte diventa strumento di propaganda, piegata alla politica;
durante la rivoluzione culturale, tutte le scuole vengono chiuse, e
intellettuali e artisti mandati in campagna.
Bisogna aspettare il 1976,
anno della morte di Zhou Enlai e Mao Zedong, perché si manifesti con forza il
desiderio di una libertà di espressione per molti anni tenuta repressa. È a
questo periodo che risale il gruppo “Star”, costituito da giovani artisti,
tutti nati negli anni ’50 e che hanno vissuto appieno la rivoluzione culturale.
Il nome deriva dall'affermazione del fondatore, Ma Desheng: “ogni artista è una stella che splende
individualmente”. Il 1979, data in cui si costituirono come gruppo artistico, è
considerato l’inizio dell’arte cinese contemporanea. Le parole d’ordine erano
rifiuto del realismo socialista, messa in discussione dell’iconografia maoista
e adozione di stili e tecniche di matrice occidentale. In una parola, DISSENSO.

Ma i tempi non erano ancora
maturi per un libero sviluppo dell’arte e alla notizia dell’abolizione
dell’articolo che garantiva la libertà d’espressione, gli artisti di “Star” decisero
di lasciare la Cina. È questo un momento decisivo per il ritorno degli artisti
cinesi in Europa: Wang Keping scelse Parigi, dove arrivò nel 1984, il suo
laboratorio si trova in un sobborgo a sud della capitale francese; Ma Desheng,
dopo una breve sosta in Svizzera, anche lui raggiunse Wang. Furono seguiti da
diversi altri colleghi. Altri scelsero il Giappone o gli Stati Uniti, come Ai
Weiwei, personaggio molto discusso dalla stampa internazionale.
A differenza degli artisti d’inizio
secolo, che avevano studiato in Europa, questo secondo gruppo invece guardò
al vecchio continente come ad una meta dove poter finalmente crescere, esprimersi
liberamente e affermarsi. Un’ ulteriore
differenza da sottolineare è il diverso background culturale e di formazione
tra i due gruppi: mentre i primi avevano alle spalle un solido percorso
accademico arricchito poi dai corsi seguiti in Europa, gli altri erano per lo
più autodidatti. Fu allora che ebbe inizio quel processo che portò la nuova
arte cinese all'attenzione internazionale: non c’è fiera, museo, galleria nel
mondo che non includa artisti cinesi contemporanei. Solo per quanto riguarda
l’Italia, la Biennale di Venezia ha un padiglione fisso dedicato alla Cina, e
quest’anno a Monza è stata inaugurata la prima edizione della Biennale d’Arte
Contemporanea Italia Cina.
L’Europa è ancora un punto di
riferimento per giovani aspiranti artisti cinesi che continuamente invadono le
accademie d’arte delle principali città europee, per investire, anche sotto la
spinta dei genitori, in una formazione che in patria sarebbe molto diversa. E
poi è sempre un punto in più sul proprio curriculum per diventare più competitivi.
Si pensi al progetto Turandot che permette a studenti stranieri, tra cui anche
cinesi, di frequentare accademie d’arte e di musica in Italia.
Ma cosa vuol dire essere
artisti in un posto dove i parametri sociali, culturali, politici sono tanto
lontani dal proprio paese d’origine? Quanto conta il fattore nazionale nella
produzione artistica una volta fuori dalla propria terra? Sicuramente domande
legittime, infatti grandi sono i problemi di carattere culturale e linguistico.
Un esempio è la limitata conoscenza del francese di Wang Keping, nonostante il
suo lungo periodo di permanenza in Francia.

Per il secondo interrogativo,
basta pensare alla popolarità che l’arte cinese contemporanea riscuote ai grandi appuntamenti internazionali
del settore in tutto il mondo, case d’asta e gallerie occidentali incluse. Pensare
che “sia affascinante” solo perché “cinese” e quindi ridurre il tutto ai
confini territoriali di un popolo, sarebbe riduttivo. Certamente l’identità
culturale ha un peso e può essere motore e/o strumento, punto di partenza per
esprimere qualcosa che trascende una bandiera o una lingua, che risulta
universale, che riguarda le sorti di tutti noi, gli interrogativi, i bisogni
comuni. Per Ma
Desheng, l’arte conta più della nazionalità. Durante un’intervista ha affermato
: “prima sono un pittore, poi un cinese ed infine vivo a Parigi. Per me, non è
cambiato nulla e la mia considerazione dell’arte, neanche. Il cielo è sempre
lì. Certo, ci sono il vento, la neve, le nuvole, ma il cielo e il sole sono
sempre lì. Tra qui e la Cina, cambia la lingua, il cibo è diverso. Ma le radici della
vita sono sempre le stesse. Considera la guerra, per esempio, c’è sempre stata
e le condizioni sono sempre le stesse. L’unica cosa che è cambiata è il
passaggio dalla pietra alle piante, ma fondamentalmente si tratta sempre di un
uomo che uccide un altro uomo”. Le pietre sono un soggetto costante delle tele
di Ma Desheng, poiché “agli albori del mondo, c’erano solo pietre. Non importa
come il mondo cambia, loro rimangono dure”.
Nonostante la crisi economica
e culturale che l’Europa sta affrontando, c’è qualcuno che la ritiene una tappa
importante, per diverse ragioni: chi per la formazione, chi perché il vecchio
continente non conosce censura e offre la possibilità di esprimersi liberamente,
di trovare la propria strada, di seguire il proprio fuoco. Un modello, un
rifugio, una speranza, un’occasione. In tutti i casi, c’è un’opportunità di
riflessione e confronto, anche per “noi”, forse da sfruttare meglio, per
smussare alcuni diffusi preconcetti, stimolare la nostra sensibilità e
curiosità, e creare più momenti di scambio.
Chissà che un giorno studenti
d’arte europei non partano per l’accademia d’arte di Shanghai o di Hangzhou per
frequentare dei corsi d’arte…Impossibile?