giovedì 3 luglio 2014

Il ping pong…diplomatico

Glen Cowan e Zhuang Zedong, due nomi sconosciuti ai più, forse familiari agli appassionati di ping pong. Da una parte la Cina, dall’altra gli Stati Uniti d’America ai tempi della Guerra Fredda. Tra le due nazioni non correva buon sangue all’epoca. Neanche al senatore McCarthy fu concesso il visto, nonostante la sua carica istituzionale. Ad invertire la rotta fu un incontro tra due sportivi durante i Mondiali di ping pong in Giappone nel 1970. Glenn Cowan, uno studente di 19 anni del College di Santa Monica, giocatore della nazionale statunitense, perse l’autobus della sua squadra e salì su quello cinese, sedendosi in fondo. Zhuang Zedong, della nazionale cinese, racconta, il viaggio sull'autobus durò 15 minuti, e io esitai per 10 minuti. Ero cresciuto con lo slogan 'Abbasso l'imperialismo americano!' E durante la Rivoluzione culturale, la retorica della lotta di classe era impiegata più che mai, e mi stavo chiedendo, 'Ma è giusto avere a che fare con il tuo nemico numero uno? Eravamo tutti molto tesi. Ci era stato detto di non parlare con gli americani, di non stringere loro la mano e neanche scambiare regali. 
L’ ho guardato e ho pensato, non è lui che fa la politica, è solo un atleta, un americano ordinario.
L’anno precedente, il Presidente Mao Zedong aveva detto ad Edgar Snow, giornalista e autore di “Stella rossa sulla Cina”, che il paese avrebbe dovuto riporre le sue speranze nel popolo americano. Ricordandosi queste parole, Zhuang Zedong decise di rompere il ghiaccio, regalando al suo avversario un ritratto su seta delle Montagne Gialle. Pronunciò queste parole, malgrado il governo Usa non sia amico della Cina, gli americani sono amici dei cinesi. Ti regalo questo per segnare l’amicizia dei cinesi con gli americani. E Glenn rispose dandogli una T-shirt raffigurante il segno della pace e la scritta "LET IT BE."
Scesi dall’autobus, ad accoglierli all’ingresso della palestra furono i flash dei fotografi che non persero un attimo ad immortalare il grande momento. Con il clima politico che c’era negli anni Sessanta, la vista di un atleta della Cina comunista assieme ad uno degli Stati Uniti suscitava certamente molto interesse. Il gioco era fatto: il giorno dopo sulle prime pagine dei giornali giapponesi c’erano le foto che ritraevano la scena che avrebbe contribuito alla distensione dei rapporti tra i due paesi. La forza dello sport aveva travalicato i confini nazionali, la storia, gli interessi, la politica, diventando un saggio e potente strumento al servizio della diplomazia.  
Nella sera dello stesso giorno, Mao Zedong vide la notizia dell'incontro tra i due atleti sul dacankao, un giornale disponibile solo alle più alte gerarchie del governo. Venne riportato che il Presidente disse, "Questo Zhuang Zedong non solo gioca bene a ping pong, ma è bravo in affari esteri, è portato per la politica." A quel punto la Cina decise di invitare la squadra statunitense. Risultato: il 10 aprile 1971, nove giocatori americani, quattro funzionari e due consorti attraversarono il ponte tra Hong Kong e la Cina continentale e passarono una settimana tra partite dimostrative, visite guidate ed eventi mondani. Lo slogan che accompagnò la permanenza degli americani fu “prima l’amicizia e poi la competizione”. Furono il primo gruppo di americani a recarsi in Cina dal 1949, anno della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. In quei giorni, gli Usa annunciarono la fine dei venti anni di embargo sulle esportazioni verso la Cina. Il Time così scrisse della visita, probabilmente nessuno sport è stato mai usato in maniera così efficace come strumento di diplomazia internazionale.
Ne seguì nel febbraio del 1972 la storica visita del presidente Nixon in Cina. Due mesi dopo, Zhuang Zedong, a capo della delegazione della squadra di ping pong cinese, si recò negli Usa e successivamente in Canada, Messico e Perù. Ma non tutti i tentativi cinesi di contattare altre nazioni hanno avuto successo, come dimostra il rifiuto dell’Indonesia.

Ora Glen Cowan e Zhuang Zedong non ci sono più, ma il loro gesto ha avuto un grande peso nella storia contemporanea mondiale.

giovedì 6 febbraio 2014

La Cina è più vicina


Molti dicono che la Cina è il futuro, ma si sbagliano, perché la Cina è già ora, è il presente. E a dimostrarlo non sono solo i numeri, le statistiche e le percentuali della sua economia, ma anche la sua cultura, che si sta diffondendo sempre di più attraverso la rete degli Istituti Confucio. La loro mission? Promuovere la lingua e la cultura cinese all’estero. In Italia ce ne sono 11 e uno di questi si trova a Pisa. Nato in seguito ad un accordo di collaborazione tra la Scuola Superiore Sant’Anna e l’Università di Chongqing, l’Istituto Confucio di Pisa si trova nel centro storico, in via San Francesco 78. Dato che una lingua è il migliore veicolo per la cultura, una delle sue principali attività è rappresentata proprio dall’insegnamento del cinese. Infatti, l’offerta copre corsi di lingua per tutti i livelli e tutte le esigenze. Oltre a vari appuntamenti organizzati ad hoc per le scuole e l’Università per Stranieri di Siena, l’Istituto propone anche degli eventi culturali, sia divulgativi che più scientifici. Si è appena concluso alla Stazione Leopolda il Pisa Chinese Film Festival, l’unico festival in Italia dedicato esclusivamente a film e documentari cinesi. Per gli appassionati di musica, da non perdere a marzo “Un violinista in Cina”, un concerto sulle opere del missionario Teodorico Pedrini, uno dei primi musicisti europei entrato in contatto con la Corte del Gran Khan. Suoneranno gli Ensemble Alraune, formazione di riferimento dell'Associazione "Giotto in Musica", protagonisti dell' edizione 2013 del Ekhof Festival di Gotha (Germania), interamente dedicata alla Cina. Ad aprile si partirà per Montepulciano, dove si svolgerà il workshop internazionale “The cultural heritage of Chinese and Western (grape) wines. Production trend, consumer attitude, trade and marketing perspectives of the grape wine in China”. Il titolo dice già tutto! Per l’autunno è previsto un altro workshop internazionale, ma questa volta i riflettori saranno puntati sui turisti cinesi, per approfondire le strategie di promozione turistica e di accoglienza per i visitatori in arrivo dalla Terra di Mezzo. L’anno si chiuderà con una manifestazione speciale, “Voci e suoni dei gesuiti in Cina”, su cui non sveliamo per il momento alcun dettaglio. Se vi è venuta voglia di imparare il cinese, consultate il sito dell’Istituto Confucio di Pisa: www.confuciopisa.sssup.it. Per restare connessi con l’universo Cina, diventate follower su facebook, basta digitare Istituto Confucio di Pisa.


lunedì 2 dicembre 2013

Europa: meta o terra di passaggio per gli artisti cinesi?

“Il sapere cinese come base, quello occidentale come strumento”. Scriveva così il politico e letterato Zhang Zhidong nella Cina di fine ‘800, quando a seguito delle sconfitte subite durante le guerre dell’oppio e nella guerra sino-giapponese si fece strada la necessità di profondi interventi di modernizzazione in tutti i campi, affinché il “Paese di mezzo” potesse tornare a competere con le grandi potenze mondiali. E l’arte non rimase indenne dalle contaminazioni della cultura occidentale. Se fino ad allora il Giappone aveva costituito il punto di riferimento straniero per l’innovazione, dai primi anni del ‘900, e soprattutto dopo il movimento del 4 maggio del 1919, fino agli anni ’40, gruppi di artisti cinesi cominciarono a migrare verso l’Europa, in particolar modo Parigi, anche grazie a borse di studio del governo. Alcuni decisero di fermarsi nel vecchio continente, come Sanyu, Zao Wou-ki, altri invece di fare ritorno in patria. Sarebbero stati loro i padri dell’arte cinese moderna.
È il caso di numerose personalità dell’epoca, come Lin Fengmian, Xu Beihong, Wu Guanzhong, che fondarono accademie d’arte e introdussero in quelle già esistenti programmi basati sul sistema di educazione artistica occidentale caratterizzato dalla descrizione realistica di persone e luoghi, dalla pratica del disegno e della pittura ad olio, già introdotta dai gesuiti nel 1600. Sebbene fino ad allora il linguaggio artistico occidentale fosse stato  considerato volgare e troppo letterale perché non evocativo nella rappresentazione del vero, ora il mondo artistico figurativo cinese guarda con interesse alle nuove tecniche e ai nuovi soggetti della tradizione culturale europea.
Dopo un periodo di studi all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux Arts di Parigi, dove apprese la pittura ad olio e il disegno, Xu Beihong viaggiò molto per l’Europa occidentale dove ritornò in seguito, facendo tappa anche in Italia, con una mostra di pittura moderna. Il direttore del Singapore Art Museum Kwok Kian Chow sostenne che il nome di Xu era in cima alla lista nell’arte asiatica del realismo moderno. Anche il contemporaneo Lin Fengmian studiò prima a Dijon e poi a Parigi, dove partecipò nel 1922 al prestigioso Salon d’Automne con la sua opera “Autunno”.

Con la costituzione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, il vento cambia e la Cina strizza l’occhio alla Russia, che diventa il suo interlocutore privilegiato. Si afferma il realismo socialista e l’arte diventa strumento di propaganda, piegata alla politica; durante la rivoluzione culturale, tutte le scuole vengono chiuse, e intellettuali e artisti mandati in campagna.
Bisogna aspettare il 1976, anno della morte di Zhou Enlai e Mao Zedong, perché si manifesti con forza il desiderio di una libertà di espressione per molti anni tenuta repressa. È a questo periodo che risale il gruppo “Star”, costituito da giovani artisti, tutti nati negli anni ’50 e che hanno vissuto appieno la rivoluzione culturale. Il nome deriva dall'affermazione del  fondatore, Ma Desheng:  “ogni artista è una stella che splende individualmente”. Il 1979, data in cui si costituirono come gruppo artistico, è considerato l’inizio dell’arte cinese contemporanea. Le parole d’ordine erano rifiuto del realismo socialista, messa in discussione dell’iconografia maoista e adozione di stili e tecniche di matrice occidentale. In una parola, DISSENSO.
Ma i tempi non erano ancora maturi per un libero sviluppo dell’arte e alla notizia dell’abolizione dell’articolo che garantiva la libertà d’espressione, gli artisti di “Star” decisero di lasciare la Cina. È questo un momento decisivo per il ritorno degli artisti cinesi in Europa: Wang Keping scelse Parigi, dove arrivò nel 1984, il suo laboratorio si trova in un sobborgo a sud della capitale francese; Ma Desheng, dopo una breve sosta in Svizzera, anche lui raggiunse Wang. Furono seguiti da diversi altri colleghi. Altri scelsero il Giappone o gli Stati Uniti, come Ai Weiwei, personaggio molto discusso dalla stampa internazionale.
A differenza degli artisti d’inizio secolo, che avevano studiato in Europa, questo secondo gruppo invece guardò al vecchio continente come ad una meta dove poter finalmente crescere, esprimersi liberamente e  affermarsi. Un’ ulteriore differenza da sottolineare è il diverso background culturale e di formazione tra i due gruppi: mentre i primi avevano alle spalle un solido percorso accademico arricchito poi dai corsi seguiti in Europa, gli altri erano per lo più autodidatti. Fu allora che ebbe inizio quel processo che portò la nuova arte cinese all'attenzione internazionale: non c’è fiera, museo, galleria nel mondo che non includa artisti cinesi contemporanei. Solo per quanto riguarda l’Italia, la Biennale di Venezia ha un padiglione fisso dedicato alla Cina, e quest’anno a Monza è stata inaugurata la prima edizione della Biennale d’Arte Contemporanea Italia Cina.

L’Europa è ancora un punto di riferimento per giovani aspiranti artisti cinesi che continuamente invadono le accademie d’arte delle principali città europee, per investire, anche sotto la spinta dei genitori, in una formazione che in patria sarebbe molto diversa. E poi è sempre un punto in più sul proprio curriculum per diventare più competitivi. Si pensi al progetto Turandot che permette a studenti stranieri, tra cui anche cinesi, di frequentare accademie d’arte e di musica in Italia.

Ma cosa vuol dire essere artisti in un posto dove i parametri sociali, culturali, politici sono tanto lontani dal proprio paese d’origine? Quanto conta il fattore nazionale nella produzione artistica una volta fuori dalla propria terra? Sicuramente domande legittime, infatti grandi sono i problemi di carattere culturale e linguistico. Un esempio è la limitata conoscenza del francese di Wang Keping, nonostante il suo lungo periodo di permanenza in Francia. 
Per il secondo interrogativo, basta pensare alla popolarità che l’arte cinese contemporanea  riscuote ai grandi appuntamenti internazionali del settore in tutto il mondo, case d’asta e gallerie occidentali incluse. Pensare che “sia affascinante” solo perché “cinese” e quindi ridurre il tutto ai confini territoriali di un popolo, sarebbe riduttivo. Certamente l’identità culturale ha un peso e può essere motore e/o strumento, punto di partenza per esprimere qualcosa che trascende una bandiera o una lingua, che risulta universale, che riguarda le sorti di tutti noi, gli interrogativi, i bisogni comuni. Per Ma Desheng, l’arte conta più della nazionalità. Durante un’intervista ha affermato : “prima sono un pittore, poi un cinese ed infine vivo a Parigi. Per me, non è cambiato nulla e la mia considerazione dell’arte, neanche. Il cielo è sempre lì. Certo, ci sono il vento, la neve, le nuvole, ma il cielo e il sole sono sempre lì. Tra qui e la Cina, cambia la lingua, il cibo è diverso. Ma le radici della vita sono sempre le stesse. Considera la guerra, per esempio, c’è sempre stata e le condizioni sono sempre le stesse. L’unica cosa che è cambiata è il passaggio dalla pietra alle piante, ma fondamentalmente si tratta sempre di un uomo che uccide un altro uomo”. Le pietre sono un soggetto costante delle tele di Ma Desheng, poiché “agli albori del mondo, c’erano solo pietre. Non importa come il mondo cambia, loro rimangono dure”.


Nonostante la crisi economica e culturale che l’Europa sta affrontando, c’è qualcuno che la ritiene una tappa importante, per diverse ragioni: chi per la formazione, chi perché il vecchio continente non conosce censura e offre la possibilità di esprimersi liberamente, di trovare la propria strada, di seguire il proprio fuoco. Un modello, un rifugio, una speranza, un’occasione. In tutti i casi, c’è un’opportunità di riflessione e confronto, anche per “noi”, forse da sfruttare meglio, per smussare alcuni diffusi preconcetti, stimolare la nostra sensibilità e curiosità, e creare più momenti di scambio.


Chissà che un giorno studenti d’arte europei non partano per l’accademia d’arte di Shanghai o di Hangzhou per frequentare dei corsi d’arte…Impossibile?

È solo questione di energia

Fengshui, è questa una delle parole chiave per i cinesi quando devono comprare o prendere in affitto una casa. Si tratta di un’antichissima arte geomantica taoista, molto radicata in Cina, che si sta diffondendo rapidamente anche in occidente, dando vita ad accademie, corsi e workshop.

Proprio come l’agopuntura aiuta a far circolare l’energia vitale all’interno del nostro corpo, così il fengshui aiuta a bilanciarla nel nostro spazio vitale, assicurando benessere e fortuna. Agli occhi dei cinesi, un luogo non viene giudicato in base a parametri estetici, bensì alla sua posizione sfavorevole o fortunata. Costruire un edificio, disporre i suoi spazi interni e i mobili significa metterli in equilibrio con questa energia.

Per quanto incerte, le origini del fengshui risalgono a migliaia di anni fa: sono state scoperte delle tombe risalenti al Neolitico che sembrano seguirne i principi nella costruzione. Trovò una prima sistemazione e definizione organica nel fondamentale Zang Shu, Il libro delle sepolture del IV a.C.

Sono lo yin e lo yang, i due princìpi generatori dell’universo, a regolare il fengshui, dalla cui interazione si manifesta e si sviluppa il qi, l’energia vitale. La notte, il buio, il freddo, la luna sono yin. Lo yang invece è il principio caldo, luminoso. Il sud è yang e quindi calore, stimola passione e irrequietezza, mentre il nord è il lato corrispondente all'acqua. Infatti uno dei suggerimenti per dormire bene è proprio con la testa rivolta verso nord e i piedi verso sud. Ma la questione non è così semplice, perché ci sono anche i 5 elementi da considerare: fuoco, terra, acqua, legno, metallo. Ognuno corrisponde ad una direzione, che a sua volta ha una relazione con un colore. I colori generano vibrazioni che interagiscono con la persona e con l'ambiente. A complicare le cose sono le diverse scuole del fengshui. Le principali sono due: della forma e della bussola.  La prima, più antica, trae il suo fondamento direttamente dalla natura e dalla sua osservazione. Cerca nella morfologia del paesaggio terrestre i quattro animali simbolici dell’astronomia cinese: il drago, la tigre, la tartaruga e la fenice. La loro collocazione rispetto ai lati di un'abitazione, del letto, o anche della scrivania, è legata a significati particolari e porta maggiore o minore benessere, a seconda di dove si trovano. E così, per esempio, una casa dovrebbe avere alle spalle, dal punto di osservazione, una Tartaruga (la montagna), simbolo di protezione; davanti la Fenice (un orizzonte libero, un piazzale, un parco), simbolo di prosperità; sulla sinistra il Drago (una collina o una schermatura più alta), simbolo dell’energia cosmica; sulla destra la Tigre (una schermatura più bassa), simbolo della forza. Ma questo vale anche per il campo energetico esterno di ogni individuo. Ora capite perché ci si sente a disagio quando ci si siede su un divano posizionato al centro di una stanza, lasciando le spalle scoperte?


Se nella scuola della forma l’elemento dominante è stato il paesaggio, con la scuola della bussola, molto complessa, lo strumento utilizzato è il bagua, una specie di bussola, che mette in relazione le varie aree della vita (carriera, conoscenza, famiglia, ricchezza, fama, amore e relazioni, creatività e figli, viaggi, benessere) con le otto sezioni dello spazio vitale, più il centro. Ogni sezione è caratterizzato da un proprio colore specifico. Il bagua può essere applicato a qualsiasi spazio: una casa, una stanza, un oggetto! Sulla pianta di una casa o di un alloggio, per "leggere" la distribuzione dell’energia, viene collocata questa bussola, costituita da 8 trigrammi dell’Yijing, Il libro dei mutamenti. Ogni trigramma è costituito da tre linee che possono essere di due tipi: quelle intere, che rappresentano l'energia yang, e quelle spezzate, che indicano lo yin. Le linee sono assemblate in otto diverse combinazioni. Ciascun trigramma può essere inoltre combinato con ognuno degli altri, dando origine a sessantaquattro gruppi da sei linee: i sessantaquattro esagrammi, che rappresentano tutte le possibili condizioni della vita umana. Per essere più chiari, l’entrata di una casa, di una stanza, dovrebbe sempre coincidere con la parte inferiore del bagua, il nord, e i colori indicati per questa zona sono i colori scuri, tipo il blu.
A questo punto, non vi resta che verificare se anche la vostra casa è in sintonia con il qi.

mercoledì 12 settembre 2012

PARKOUR, UN'ALTERNATIVA ALL'UNIVERSITA' PER I RAGAZZI CINESI



La foto qui accanto, scattata a Taizhou, nella regione dello Zhejiang, in Cina, ritrae un ragazzo impegnato a saltare da un tetto ad un altro ovvero a fare parkour.


La disciplina metropolitana nata in Francia negli anni '80 sbarca anche in Cina e riscuote una certa popolarità: youtube e tudou, l'equivalente di youtube ma made in China, forniscono numerosi filmati di giovani cinesi impegnati nel superamento di un muretto o in un triplo salto mortale tra un albero e un palazzo.

Il termine è stato tradotto in cinese con 跑酷 (pao3ku4) trascrizione fonetica di parkour.

Il primo club ufficiale è stato fondato a Pechino nel 2006 e da allora il numero dei praticanti è cresciuto fino ad arrivare a 200.000, mentre i club sono diventati 200 in tutta la Cina. Nel 2009 si è svolta la prima edizione del Red Bull National Parkour Tournament, che ha visto 150 partecipanti provenienti da 20 club.

Il fenomeno ha catturato l'attenzione del Chinadaily, che ha intervistato Tu Fenghao, membro del Beijing's City Monkey Parkour Club. "Ho imparato questo sport guardando il film francese Yamakasi sette anni fa". Il film, presentato nel 2001 da Luc Besson, aveva come protagonista un gruppo di 9 ragazzi che si facevano chiamare Yamakasi: i fondatori del parkour. Yamakasi è una parola di lingua lingala, del Congo, e non come erroneamente si potrebbe pensare, giapponese. Indica un individuo forte dal punto di vista fisico, mentale e morale.

Come dichiara Wang Bowen, le arti marziali e il parkour hanno molto in comune. “Abbiamo fatto di tutto, kung fu, san-da, un tipo di arte marziale. Io ho studiato l’opera cinese grazia alla quale ho imparato alcuni salti. Quando ho iniziato a praticare il parkour, ho trasferito lo spirito con cui facevo l’opera nel parkour.”

Anche in Cina i praticanti di questo sport-disciplina si guadagnano da vivere offrendo servizi di stunt per film e tv e naturalmente organizzando corsi per aspiranti tracer.

Nonostante Pechino rappresenti la scena più dinamica del parkour, anche Shanghai si sta dando da fare per cercare di recuperare. Chen Qianru, fondatore dello Shanghai’s Parkour Center, spiega che “il parkour è affascinante perché stimolante. In ognuno di noi c’è una scimmia, che muore con la crescita. Il centro conta ad oggi 100 membri, che per imparare hanno copiato da film come District 13, di Luc Besson, e video su internet. Tra gli istruttori, si trovano militari ed esperti di kung fu.

Ecco l’indirizzo del centro di cui parla

Shanghai Parkour Center

1825 Gaoke Xi Lu
Ogno giorno, dalle 10 alle 22
 60 RMB a lezione
Email: kindtyrant@21cn.com





venerdì 7 settembre 2012

CINA E STREET ART



Siamo a Chongqing, una delle più popolose metropoli del mondo. Quello che vedete nella foto è Huangjueping graffiti art street, il graffito più lungo del mondo: 1,25 km. Ancora una volta il paese di mezzo batte i record ed entra nel guinness dei primati.

Ci sono voluti 800 volontari tra studenti e artisti, 12.5 tonnellate di pittura e 30.000 pennelli. È stato completato a maggio del 2007, dopo 150 giorni di lavoro e ha visto 37 edifici e 9000 m di tubature colorarsi lungo la via Huangjueping, dal Railway Hospital alla galleria d’arte 501. Costo totale: 25 milioni di RMB (2 milioni di euro).


Il progetto è partito da Luo Zhongli, allora presidente del Sichuan Fine Art Institute, situato nei pressi di via Huangjueping, e fortemente appoggiato dalla municipalità di Chongqing. Da un lato dare un nuovo look al vecchio e un po’ decaduto quartiere industriale di Jiulongpo. Dall’altro creare un ambiente più qualificante e consono all’istituto d’arte. Due piccioni con una fava, insomma. L’obiettivo per entrambe le parti era di fornire un’occasione di riscatto all’intera area: economico, sociale e culturale. Riscatto che avrebbe dato uno scossone positivo alle attività commerciali locali, attirato giovani e trasformato il distretto in un posto cool e alla moda. I graffiti dunque da strumento di contestazione, illegali a strumenti di pubblicità e comunicazione.


A pochi mesi dal completamento della Huangjueping graffiti street art, sempre il Sichuan Fine Art Institute si fa promotore della China’s first graffiti exhibition, inserita nel programma ufficiale della China International cultural and creative industry exhibition. La manifestazione, durata 4 giorni, oltre ad aver avvicinato il pubblico ai murales, ha dato all’istituzione accademica cinese una visibilità mediatica non indifferente. E non è un caso se Pechino per le Olimpiadi del 2008 ha voluto un muro di 730 m “decorato”.

Fornisco qui di seguito l’indirizzo in cinese della Huangjueping graffiti art street in caso qualcuno di voi decida di farci un salto:

庆黄桷坪涂鸦艺术街

Questo è invece il nome della galleria d’arte 501 sopra menzionata, sempre in via  Huangjueping:

501艺术基地